Origine doganale: l’indagine Olaf non basta come “prova”

Èillegittima la rettifica dell’origine doganale se fondata esclusivamente su un’indagine europea, priva di dati concreti riferiti alle operazioni contestate. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia tributaria di secondo grado dell’Emilia Romagna con la sentenza n. 343 del 9 aprile 2025, precisando che l’Agenzia delle dogane non può fondare l’accertamento della nazionalità doganale delle merci importate unicamente sulle conclusioni dell’Olaf (Autorità europea antifrode), se queste, per quanto articolate, non sono supportate da prove puntuali e riferibili direttamente alla merce oggetto di contestazione.

Il caso esaminato dalla sentenza in commento trae origine dall’importazione di alcune biciclette elettriche originarie della Thailandia. Secondo l’Ufficio, i beni, acquistati dalla Società nel 2019, non avrebbero subito una lavorazione sostanziale in Thailandia, ma sarebbero stati di origine cinese. La Dogana ha contestato, pertanto, l’applicazione del dazio antidumping e del dazio compensativo.
La contestazione dell’Agenzia delle dogane si fonda unicamente su un’indagine condotta dall’Olaf che ha avuto chiara conoscibilità solo alla fine del 2021.
L’Olaf, com’è noto, è un organo indipendente della Commissione europea, che ha il potere di svolgere indagini nei confronti di operatori e autorità anche in Paesi extra-UE, con l’obiettivo di rilevare eventuali casi di frode o di elusione nel corretto assolvimenti dei dazi doganali. In ambito doganale, sono molto frequenti le indagini sull’origine delle merci, finalizzate a rilevare una possibile evasione delle misure di tutela adottate dall’Unione europea, come i dazi antidumping. L’attività investigativa dell’Olaf si concentra su fornitori che operano in Paesi extra-UE, sospettati di realizzare una triangolazione, importando in un Paese terzo prodotti oggetto di dumping, per esempio di origine cinese ed effettuando lavorazioni non idonee all’acquisizione dell’origine doganale, per poi rivenderli nell’Unione europea in evasione dai dazi antidumping.

Non sempre, però, le conclusioni dell’Ufficio antifrode europeo sono, da sole, sufficienti a provare, in sede processuale, la pretesa di maggiori diritti doganali, in particolare quando l’indagine si riferisce ad alcune transazioni, i cui esiti sono estesi a centinaia o a migliaia di operazioni non direttamente tracciate.
Poiché generalmente le conclusioni dell’Olaf si riferiscono a migliaia di operazioni e a numerosi esportatori, le Corti di giustizia tributaria sono chiamate a verificare, caso per caso, se gli accertamenti eseguiti si riferiscano specificamente a quel fornitore, a quel periodo temporale e a quel determinato prodotto (Cass., 31/07/2020 n. 16469; Corte Giust. trib. I grado Bari 12/06/2024 n. 1217 e 24/05/2024 n. 1068; Comm. trib. prov. Milano 3/12/2021, n. 512 e 9/03/2021, n. 1064).
Tale principio discende dalla necessità che ogni indagine, comprese quelle svolte da organismi internazionali di rilevante prestigio, approdi alla dimostrazione, fondata su dati oggettivi, dei presupposti alla base dell’attività di accertamento .
Tale interpretazione trova conferma anche nella giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18124/2023, aveva già affermato l’inidoneità delle sole risultanze OLAF a fondare un’accusa di elusione dell’origine, in mancanza di riscontri concreti che dimostrino in modo certo la provenienza cinese delle merci.
Nel caso di specie, la Corte di Giustizia tributaria di secondo grado dell’Emilia Romagna ha accertato che il report Olaf non si riferiva ai beni oggetto della controversia. Secondo la Corte, inoltre, la società importatrice aveva posto in essere tutte le misure necessarie per selezionare un fornitore affidabile.
I prodotti importati erano scortati, infatti, da validi certificati di origine non preferenziale, rilasciati dalla Camera di Commercio thailandese.

Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia Tributaria ha ritenuto decisiva la documentazione ufficiale rilasciata dalle autorità thailandesi, ossia la certificazione di origine delle merci. Un elemento che, secondo i giudici, ha avuto un peso determinante nella scelta dell’azienda italiana di concludere l’acquisto e ha fondato un legittimo affidamento sulla regolarità dell’operazione.
I giudici hanno valorizzato anche l’assoluta diligenza da parte della Società importatrice, ritenendo che al momento dell’importazione, avvenuta nel 2019, l’impresa non potesse essere a conoscenza dei rischi esaminati dall’Olaf soltanto alla fine del 2021. Infine, la Corte ha sottolineato che, date le tempistiche ristrette delle operazioni commerciali, non era esigibile un controllo capillare su ciascun componente: un simile onere avrebbe compromesso la possibilità di concludere l’affare in tempi compatibili con le esigenze del mercato.
Come confermato dalla Corte dell’Emilia Romagna, pertanto, al fine di contestare l’origine documentata nel certificato estero, la Dogana deve porre in essere una puntuale e completa istruttoria per confutarne la veridicità e per dimostrare la diversa origine dello specifico prodotto oggetto di contestazione.

 

Massimo Monosi