Il sistema multilaterale degli scambi e l’Organizzazione Mondiale del Commercio – WTO alla sfida di Trump

A cura del Prof. Giorgio Sacerdoti

 

1. Il “ciclone Trump” si è abbattuto oltre ogni aspettativa sulla rete delle relazioni internazionali degli Stati Uniti, creata dagli stessi USA da decenni, mettendo in forse assetti politici e giuridici consolidati. Dai relazioni strette con amici, alleati e vicini (Europa, Canada e Messico, NATO e Trattato di libero scambio nordamericano), ai rapporti con “avversari” (Cina, Russia, Iran), all’intervento “a gamba tesa” nei conflitti bellici in atto (Russia-Ucraina, Israele-Hamas), con l’affermazione di saperli risolvere quasi istantaneamente, l’impatto dirompente delle politiche della nuova amministrazione americana ha investito l’intero spettro dei rapporti politici, militari, economici.

A distanza di pochi giorni dalla scadenza dei fatidici “primi cento giorni” dall’insediamento, è difficile distinguere “l’effetto annuncio” e le rodomontate dalle azioni destinate a durare e incidere significativamente sull’assetto delle relazioni politiche, giuridiche, economiche (finanziarie e commerciali) internazionali che hanno negli Stati Uniti il perno e in esso comunque un attore fondamentale e indispensabile.

Ci limiteremo qui di seguito a tratteggiare i rivolgimenti che le politiche di Trump, prontamente attuate con una raffica di Executive Orders da fare invidia ai più accesi sostenitori nostrani del presidenzialismo, stanno provocando nell’assetto delle relazioni economiche e più in particolare quelle commerciali. Queste ultime sono state finora caratterizzate da un quadro normativo multilaterale, cornice in cui i singoli stato o un gruppo coeso come la UE possono sì esplicare la loro libertà d’azione a tutela di valori ed esigenze non commerciali sentite dalle loro comunità nazionali, ma entro limiti concordati e prefissati. Lo sganciamento, o ritirata, degli USA dal loro ruolo e impegno tradizionale, o addirittura la loro opposizione all’assetto esistente, sta minando rapporti commerciali e di investimenti di lunga data (le famose catene del valore) con un impatto sui mercati che sconcerta il mondo delle imprese su scala globale, non considerato né previsto dal demiurgo della Casa Bianca.

Per capire il rivolgimento in atto, anche se in parte stemperato man mano dall’opposizione di altri stati, dalle reazioni critiche interne (anche giudiziarie) e soprattutto dalle reazioni negative delle maggiori imprese americane e dei mercati, con conseguente reazioni dei consumatori, delle borse e impatto addirittura sulla fiducia nel dollaro e nel debito pubblico americano, bisogna richiamare brevemente la “filosofia” politica ed economica della nuova amministrazione, probabilmente non bene valutati dal grosso pubblico degli elettori trumpiani.

 

2. Finora la potenza degli USA si è esplicata proiettando la sua forza economica, tecnologica politica e militare nel mondo attraverso una rete di alleanze, spesso caratterizzate da subordinazione dei partners cui si accompagnava però sostegno economico e protezione militare a tutto campo. A ciò si aggiunge il soft power della sua proiezione culturale e l’attrazione del suo modello di civiltà. La nuova policy è quella di “Make America Great Again” (presupponendo che essa non lo sia più) attraverso un ripiegamento su stessa. L’idea guida sembra essere quella di un rinnovato isolazionismo, tentazione ricorrente della politica americana (proprio a 100 anni di distanza dallo sganciamento degli USA dal sistema della Società delle Nazioni patrocinato dal presidente Wilson a Versailles dopo la Prima guerra mondiale). Questo significa un ritiro dall’oneroso sostegno militare alla NATO e ad altri paesi, considerati sfruttatori degli USA nel lasciare a questi ultimi il costo della difesa per rivolgere la loro spesa in altre direzioni (non ultime sussidiare le loro imprese ed esportazioni in concorrenza con quelle americane). Significa selezionare e limitare la presenza politico-militare degli USA a scacchieri di primario interesse (quali siano peraltro allo stato non è sempre chiaro). Sconcertanti rivolgimenti improvvisi di vicinanza e simpatie (Ucraina, Russia, Iran, Siria, India) da parte americana sono all’ordine del giorno.

Alla radice vi è anche la visione tradizionale del partito repubblicano di ridurre la spesa pubblica, quella in particolare per il personale (leggi il DODGE di Musk) e considerando “rami secchi” l’educazione, la spesa sociale, l’assistenza allo sviluppo (chiusura da un giorno all’altro di USAid) così come il finanziamento di organizzazioni internazionali multilaterali.

Per quanto riguarda il commercio internazionale poi, il rivolgimento è completo, nonostante le unanimi critiche dell’intero ceto degli economisti, che non lesinano l’espressione del loro sdegno[1]. Il commercio internazionale non sarebbe più motore di sviluppo, opportunità per i consumatori domestici per approvvigionarsi di prodotti migliori e/ o a più buon mercato all’estero (con effetti positivi sulla inflazione interna). L’apertura dei mercati, cioè la riduzione negoziata e bilanciata dei dazi, così come perseguito su scala sempre più ampia dal 1947, prima in sede GATT poi, dal 1995, con la WTO, non sarebbe una evoluzione benefica che ha portato centinaia di milioni di esseri umani, specie nei paesi più poveri, a godere di una vita migliore. Altra idea davvero peregrina che sta alla base dell’amore per i dazi dell’amministrazione Trump è che essi sarebbero pagati dagli esportatori esteri e non invece, come si è visto subito con l’annunciato aumento dei prezzi ai consumatori americani, proprio da questi ultimi (con afflusso peraltro del ricavato nelle casse del Tesoro americano).

L’interdipendenza che rende il mondo più ricco e flessibile (o “resiliente” per usare un termine alla moda) è un male in questa nuova visione alternativa. L’esportazione dei loro prodotti da parte di altri paesi verso gli USA sarebbe “predatoria”, impoverirebbe gli USA, sarebbe la causa del loro deficit valutario, della crisi delle industrie superate dal progresso tecnologico e della perdita di posti di lavoro (i jobs dei colletti blu) nei relativi distretti di produzione. Di qui la spinta protezionistica, l’innalzamento unilaterali dei dazi (“le tariffe”) e il ripudio della transizione verde a favore di produzioni tradizionali (acciaio) e il sostegno alle fonti di energia fossili di cui gli USA sono ricchi, al punto da renderli autosufficienti, anzi esportatori di gas e di petrolio.

Quanto al deficit americano, che ha cause complesse ed è anzitutto reso possibile dall’essere il dollaro la moneta di riserva dominante, il che consente agli USA di indebitarsi senza limiti a differenza di qualsiasi altro paese, in questa visione esso è considerato una debolezza. Esso viene imputato solo allo squilibrio dell’import-export di merci (mentre nei servizi – finanziari, tecnologici, audiovisivi – è vero il contrario). Di qui la politica dell’amministrazione Trump di “aggredirlo” su base bilaterale, chiedendo ai partner commerciali in surplus di adoperarsi a ridurlo, con acquisti compensatori, l’apertura dei loro mercati e persino la riduzione dei loro standard ambientali, della protezione dei consumatori, dei loro sistemi di tassazione come l’IVA. Anche grazie a contropartite non economiche (acquisti militari) sotto la minaccia (attuata) di alzare in modo proibitivo la barriera daziaria americana.

Per completare il quadro, ricordiamo che questa azione viene messa in atto senza tenere in alcun conto gli impegni pattizi degli USA in materia doganale, sia in sede multilaterale (WTO, frutto dei vari round negoziali) che in sede bilaterale e regionale: rinnegando persino quella nordamericana con Canada e Messico dove l’attuale accordo USMCA è stato promosso dalla prima amministrazione Trump in sostituzione del NAFTA clintoniano. L’appetibilità del mercato americano come destinazione dell’export per molti paesi (inclusa l’Italia) rende molti partner degli Stati Uniti esposti al “ricatto” costituito dall’innalzamento dei dazi americani all’importazione, legittimi o no che siano. Non a caso solo le maggiori economie si sono permesse di rispondere, o colpo su colpo con contro dazi equivalenti (Cina) o minacciando seriamente di introdurli (Unione Europea).

In conclusione, il quadro multilaterale tradizionale portava ad una globalizzazione sostenuta dai mercati, isolando per quanto possibile gli scambi internazionali dai contrasti politici e dalle divergenze dei modelli economici dei partecipanti (salvo nei casi estremi di conflitti accesi, che legittimano sanzioni ed embarghi).

Anche più di recente, alla luce dell’esperienza del Covid, gli interventi degli stati volti ad accorciare o rimpatriare le catene di approvvigionamento (sub-fornitura) si sono concentrati su prodotti essenziali o materie prime strategiche. Ciò al fine di poter contare su fonti interne in caso di crisi, oppure per impedire la dipendenza energetica o tecnologica eccessiva dall’estero. La nuova politica americana (che stimola peraltro l’emulazione anche da questo lato dell’Atlantico e da parte cinese) è invece quella di cercare l’autonomia strategica a tutto campo, invocando a più non posso esigenze di sicurezza economica nazionale. Dilaga così, specie da parte americana ma non solo, l’uso politico, offensivo e non solo difensivo, dei dazi, tipico strumento di protezione del mercato interno, e, in un passato lontano che ora ritorna, fonte importante di risorse per il bilancio statale. Si abbandona il free trade, anche quello temperato dal fair trade a favore del managed trade.

 

3. Veniamo alla attuazione di questa policy da parte dell’amministrazione USA nell’ambito del commercio internazionale possiamo ricordare i momenti topici di questi sviluppi.

Il 2 aprile è stato annunciato dal presidente Trump come il “Liberation Day”, la liberazione dalla dipendenza dell’economia americana dall’estero. In questo giorno i dazi già introdotti su una serie di prodotti, acciaio alluminio, autoveicoli (al 25%) venivano estesi a tutti i paesi e su tutti i paesi nella misura del 10%. A questi si aggiungevano dazi differenziati a seconda del mercato di provenienza delle importazioni (“reciproci”). È emerso a seguito delle prime analisi che il tasso di questi ultimi è stato calcolato “a spanna” in misura pari alla metà del rapporto del deficit bilaterale americano sul totale dell’interscambio di merci col paese colpito. Col risultato che quasi nessun dazio extra veniva imposto all’import dal Regno Unito, mentre essi sono stati imposti nella misura del 20% sui prodotti UE, 27% per la Svizzera, 49% sul Vietnam e addirittura 89% sul poverissimo Lesotho. Quest’ultimo in quanto “colpevole” di esportare verso gli USA diamanti, (per circa USD 200 milioni) che gli USA peraltro non producono e di cui hanno bisogno, per forza di cose di valore ben superiore alle modestissime sue importazioni (pari a poco più di 20 milioni).

Davanti all’assurdità di questi dazi, e il danno causato alle stesse produzioni che le imprese USA avevano decentrato in tutto (gli iPhone della Apple made in China), o in parte (i componenti delle auto made in Detroit provenienti dal Canada e dal Messico per ragioni di contenimento del prezzo al consumatore americano del veicolo finito) o di materie prime indispensabili, seguiva una precipitosa marcia indietro sui dazi su certi prodotti con quelli “reciproci” sospesi (per ora) per 90 giorni anche al fine di intavolare trattative con le controparti. Intanto i flussi di importazione si interrompevano, data l’incertezza del regime daziario in atto e di quello futuro, dopo una precedente impennata per costituire scorte (con conseguente intasamento dei porti di arrivo). Si sono anche impattati l flussi degli investimenti esteri, persino tra paesi extra USA[2]. Così, con l’emigrazione di produzioni destinate agli USA dalla Cina all’India o l’annuncio di massicci investimenti all’interno degli Stati Uniti da parte di industrie farmaceutiche svizzere e produttori di microchips da Taiwan, tra gli altri. Non così per industrie pesanti cui pensava Trump – che tra l‘altro usano ormai pochi colletti blu e molti robot (magari made in EU).

L’altro effetto è stato, come si diceva sopra, l’apertura di negoziati tra gli USA ed alcuni paesi colpiti, almeno a livello di principi da riempire poi in successive trattative. Ciò è avvenuto con il Regno Unito e l’India e, per ora a livello finora più politico che economico, con Corea, Giappone e Vietnam. Con l’Unione Europea, al momento in cui scriviamo (metà maggio 2025), siamo ancora a livello di schermaglie. La UE si è dichiarata aperta ad un negoziato, che, in cambio della marcia indietro degli USA sui nuovi dazi potrebbe prevedere anche riduzioni daziarie europee (si è letto dell’abolizione del dazio europeo sulle auto importate, attualmente del 10%), mentre viene brandita in riserva l’introduzione di contro-dazi europei su esportazioni dagli USA di pari valore. Questi ultimi, a loro volta, si lamentano che Bruxelles non parlerebbe con una voce sola, anche se la competenza spetta alla Commissione UE, una volta concordata la linea con la maggioranza degli stati membri.

Al momento in cui scriviamo, solo dell’accordo con la Gran Bretagna si conoscono abbastanza dettagli per farsi una idea del contenuto e valutarlo. I primi commenti sono stati perplessi, perché sembrerebbe che la Gran Bretagna abbia ottenuto parecchio (eliminazione dei sovra-dazi USA diversi da quello generalizzato del 10%) fino ad una quota pari circa all’attuale volume dell’export UK verso gli USA, dando poco in cambio (qualche riduzione daziaria e acquisti di certi quantitativi di carne non agli ormoni e di mangimi). Il Regno Unito in particolare non ha ceduto cedere sugli standard di qualità attualmente in vigore, allineati a quelli europei, che sono condizione perché UK possa continuare ad esportare sul ben più consistente mercato interno europeo. Una liberalizzazione reciproca ben minore di quella pattuita negli stessi giorni da UK con l’India.

Finiamo questa analisi ricordando che l’amministrazione Trump ha introdotto altre misure restrittive, che impattano direttamente o indirettamente i traffici commerciali: una sorta di pedaggio sulle navi che attraccano negli USA se made in China, qualunque bandiera battano ( e sono la maggioranza); eliminazione dell’esenzione da dazi e imposte finora esistente sulle importazioni con un valore di meno di USD 800 per evitare frodi ma che intasa le dogane con centinaia di migliaia se non milioni di colli da controllare. Per non parlare delle restrizioni ai visti per ragione di studio e alle barriere all’immigrazione.

 

4. Vengo ora all’impatto delle misure trumpiane sul regime degli scambi internazionali, cristallizzato negli accordi WTO. È chiaro che le premesse economiche-commerciali muovono l’attuale amministrazione USA sono agli antipodi rispetto all’ispirazione dell’attuale sistema. Questo è basato sulla riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie (che gli USA oggi invece aumentano), sulla facilitazione dell’accesso ai mercati esteri (mentre oggi il mercato americano viene protetto a favore delle imprese domestiche), la non discriminazione (uguaglianza di trattamento) tra prodotti che provengono da paesi diversi (mentre oggi i dazi reciproci, cioè per definizione differenziati, dipendono dall’origine delle merci). Ostacoli che comportano costi di gestione ulteriori – tra l’altro con conseguente tendenza alla circonvenzione e quindi necessità di ulteriori controlli anche in chiave anti-corruzione. L’amministrazione Trump ne ha invece sospeso l’applicazione, così ribaltando in chiave pro-business al ribasso una politica in cui per quasi 50 anni gli USA sono stati un modello per altri paesi con la sua legislazione antesignana del FCPA. Altri adempimenti e verifiche, che implicano maggiori costi e incertezza per le imprese, sono causati sin da ora dall’assoggettamento ai dazi, in particolare su acciaio e alluminio anche dei componenti incorporati in prodotti di altro materiale.

Gli accordi bilaterali cui punta l’amministrazione Trump lungi dal risolvere il problema lo aggravano. Anzitutto per la prima volta dalla creazione del GATT nel 1947 si negoziano accordi commerciali che aumentano le barriere invece di ridurle e liberalizzare gli ostacoli ai commerci su base settoriali. Si introducono così regimi doganali particolari che non rispettano la principale condizione cui il GATT/WTO assoggetta la concessione reciproca di queste facilitazioni limitatamente solo ad alcuni dei suoi membri che si tratti di zone di libero scambio che coprano la maggior parte degli scambi reciproci.

Gli accordi che si vanno concludendo tra gli USA e altri paesi per evitare i dazi “reciproci” americani non si conformano a questo requisito. Neppure le parti pretendono che rappresentino una prima fase verso la instaurazione di zone di libero scambio. La conseguenza è, secondo il GATT, che le riduzioni e facilitazioni doganali reciprocamente concesse devono essere estese “immediatamente e incondizionatamente“ (cioè senza contropartita) a tutti gli altri paesi membri della WTO in base all’art I del GATT sulla “clausola della nazione più favorita, come ha ricordato di recente il Direttore generale della WTO in persona.

Per fare un esempio le facilitazioni che il Regno Unito consente agli USA, e viceversa, devono essere estese agli stessi prodotti provenienti da qualsiasi   altro paese membro della WTO. Che ciò avvenga davvero sembra del tutto irrealistico, soprattutto da parte americana. La generalizzazione di accordi del genere rischia quindi di essere un duro colpo per la unitarietà del sistema multilaterale la credibilità del sistema.

 

5. Questo tsunami si abbatte su una WTO già in crisi, non tanto per il mancato rispetto delle sue regole da parte dei suoi membri – che invero vi si allineano nella loro prassi e affermano di volerle rispettare (con l’eccezione degli Stati Uniti). Il problema maggiore è l’incapacità dei suoi membri di negoziare nuovi accordi in materie non coperte dalle regole attuali o di concordarne di nuove nella misura in cui esse sono diventate inadeguate (così in materia di contrasto ai sussidi distorsivi, specie cinesi).

Anche dove accordi sono stati negoziati da un gruppo consistente di paesi (per esempio in tema di liberalizzazione di “prodotti ambientali” e di commercio elettronico, inclusa la delicata questione del trasferimento dei dati dei consumatori) una minoranza caparbia ne blocca l’inserzione nel quadro WTO. Non solo si chiamano fuori, come è del tutto legittimo, ma impediscono agli altri di procedere.

Un’altra questione annosa che vede i paesi membri divisi è quello dello status di paese in via di sviluppo (il cosidetto “Special & Differential Treatment” o S&DT) che non dovrebbe più spettare a grandi economie come la Cina e altri membri del G-20.

 

6. Da ultimo vi è il nodo della semi-paralisi del sistema di soluzione delle controversie. Per oltre due decenni esso è stato la perla o corona dell’organizzazione. Un sistema di tipo-arbitrale / para-giudiziale, obbligatorio a due livelli (panel arbitrali e Organo di appello di tipo giudiziale) unico nel panorama delle organizzazioni internazionali anche grazie al suo meccanismo di sorveglianza collettiva sull’adempimento delle decisioni.

Come noto, a partire dal 2017 gli USA, adducendo un supposto “attivismo giudiziale” dei giudici ma in verità perché insoddisfatti dell’esito del contenzioso, ne hanno bloccato il rinnovo, approfittando che la procedura richiese l’unanimità dei membri del WTO. Così a fine 2019 l’Organo di Appello (Appellate Body) è venuto meno per assenza di membri.

Il risultato pratico è che se una parte soccombente in primo grado (che continua a svolgersi davanti ai panel di tipo arbitrale) fa appello, la controversia resta indefinitamente sospesa e la violazione riscontrata può proseguire senza nessuna sanzione. Oltre venti controversie si trovano in questo limbo da allora. Per reagire, un gruppo consistente di membri del WTO ha istituito una alternativa basata su un meccanismo arbitrale ma sempre nell’ambito del sistema, il Multi-party Interim Appeal Arbitration o MPIA. Ne fanno parte 28 membri sui 130 del WTO (calcolando come uno l’Unione Europea insieme ai suoi stati membri), compresi la UE che lo ha promosso, la Cina, il Canada, il Brasile, Messico, Giappone. Mancano però all’appello, oltre naturalmente agli USA, importanti attori del commercio internazionale come India, Indonesia, Sud Africa.

Questa paralisi conviene particolarmente agli Stati Uniti per sottrarre a controllo e contromisure le loro restrizioni non conformi alle regole multilaterali. Gli Stati Uniti invocano sistematicamente per asserire il contrario l’eccezione dell’art. XXI del GATT che salvaguardia misure fondate sulla sicurezza nazionale. I panel hanno però sempre ribadito che questa è utilizzabile testualmente “in tempo di guerra o altra emergenza nelle relazioni internazionali” e non può giustificare restrizioni basate sulla mera asserzione di esigenze di “sicurezza economica”.

Si rende più urgente che mai un aggiornamento delle regole del WTO. Esse sono fondamentalmente tuttora valide, ma nei dettagli sono state concepite per un mondo aperto, fondato sulla cooperazione e non al confronto e alla protezione accentuata delle economie nazionali, giustificata o no che sia. Un prenegoziato sulla riforma del sistema di soluzione delle controversie è stato avviato nel 2022 ma finora ha partorito documenti tecnici che evidenziano le divergenze più che avvicinare le posizioni, soprattutto sulla vexata quaestio del meccanismo di appello (mantenerlo tale quale, riformarlo o abolirlo?).

L’unanimità richiesta per riformare le regole esistenti, sia sostanziali che procedurali, paralizza finora il processo di riforma, dando impulso ad alternative come il ricorso agli accordi “mega-aree” regionali (quali il CPTPP nel Sud Est asiatico e nel Pacifico) che marginalizzerebbero ancora di più la WTO, nonostante che, a parole, essa sia difesa da (quasi) tutti i suoi membri quale indispensabile quadro normativo globale.

È un fatto, comunque, che questa crisi da impulso agli accordi di libero scambio, che la WTO consente (Art. XXIV GATT), opportunamente estesi a materie che la WTO non copre, quali la protezione dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori, il commercio elettronico, di cui la Unione Europea si è fatta, e non da oggi, promotrice. È da sperare che il nuovo quadro di incertezza normativa creatosi, col rischio concreto di un calo della forza trainante del commercio internazionale, sblocchi da parte degli stati membri della UE (a partire dall’Italia) la ratifica degli accordi già da tempo conclusi dalla EU col Canada (CETA), col Mercosur, con il Messico e col Cile e dia impulso ai negoziati in vista col Viet-Nam, l’Indonesia e soprattutto l’India. Tutti paesi che fino all’avvento della seconda amministrazione Trump erano restii a smantellare le loro barriere tariffarie, tradizionalmente assai più consistenti di quelle dei paesi industrializzati. Si tratterebbe di un effetto collaterale positivo, non voluto, delle restrizioni trumpiane, tale da consentire che il sistema funzioni su altre basi nonostante che gli USA se ne chiamino fuori.

 

Giorgio Sacerdoti, Professore emerito presso l’Università Bocconi, docente di ARcom Formazione 

(19 maggio 2025)

 

[1] Soprattutto il premio Nobel dell’economia Paul Krugman è implacabile contro l’insensatezza e le contraddizioni delle misure daziarie di Trump nel suo blog quotidiano Paul Krugman from Paul Krugman <paulkrugman@substack.com>

[2] Sull’intreccio tra normative commerciali e sugli investimenti ci permettiamo di rinviare al volume G. Sacerdoti & N. Moran, International Trade and Investment Dispute Settlement. From Rise to Crisis and Reform, Routledge 2025.