CBAM: un dazio ambientale alla prova della competitività delle imprese

Un terremoto è in arrivo nel settore del commercio internazionale

Il regolamento dell’Unione europea 956/2023, in vigore dallo scorso 17 maggio, ha reso ufficiale l’introduzione del CBAM(Carbon Border Adjustment Mechanism), un meccanismo di tassazione alle frontiere delle emissioni di carbonio. Tale misura rientra all’interno del pacchetto normativo “fit for 55%”, voluto dal legislatore UE, un insieme di politiche ambientali programmatiche approvate lo scorso 18 aprile, il cui minimo comun denominatore è il raggiungimento di ambiziosi obiettivi climatici, nell’ambito nel nuovo corso europeo (c.d. “Green Deal”). Nello specifico, l’Unione europea si è riproposta di ridurre, entro il 2030, i gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli misurati negli anni 90.

 

Ma quali saranno le conseguenze per le imprese UE?

I settori più colpiti dal principio saranno quelli dell’edilizia e della siderurgia.

In generale, la misura potrebbe comportare un aumento dei costi di moltissime produzioni e una conseguente inflazione dei prezzi di merci ritenute strategiche per l’economia unionale.

Molti commentatori vedono il CBAM come una nuova carbon tax europea. Da un punto di vista delle modalità applicative e delle finalità, tuttavia, il meccanismo assomiglia maggiormente a un dazio doganale antidumping, ossia a un’imposta di confine tesa a scoraggiare pratiche commerciali, considerate sleali, che si concretizzano in importazioni di beni a un prezzo inferiore al loro valore di mercato.

Il CBAM, servirà a garantire che determinate merci, considerate particolarmente inquinanti da un punto di vista energetico e importate da Paesi che utilizzano impianti tecnologici caratterizzati da un livello di sostenibilità insufficiente, scontino un prezzo per le emissioni di carbonio paragonabile a quello che grava sui produttori nazionali che rientrano nel sistema europeo di scambio delle quote di emissione (EU ETS). I Paesi che adottano il sistema ETS (o che sono collegati a tale sistema) saranno esentati dal CBAM.

Dopo un primo periodo transitorio, dal 1° gennaio 2026 gli importatori UE saranno obbligati ad acquistare dei certificati il cui valore corrisponderà alle emissioni di CO2 relative ai beni importati.

Inizialmente i certificati CBAM saranno necessari per l’importazione di cemento, ferro, acciaio, alluminio, idrogeno, e elettricità. Il sistema, tuttavia, è destinato a estendersi rapidamente ad altri settori merceologici, specie a quelli derivati dai processi di lavorazione di tali materie prime.

Secondo quanto stimato dalla Commissione europea, l’introduzione dei certificati CBAM poterà un importante gettito per le casse unionali, per una cifra che ammonterà approssimativamente tra i 9 e i 14 miliardi di euro all’anno.

Ovviamente, una novità di tale portata non raccoglie solo consensi ma anche tante critiche, che riguardano soprattutto i nuovi costi che dovranno sopportare intere filiere commerciali.

Senza dubbio, gi obiettivi di sostenibilità climatica dell’Unione europea, nel rispetto degli Accordi di Parigi, sono apprezzabili ma rischiano di restare isolati.  Non si registrano, infatti, altrettante iniziative lodevoli da parte dei competitor commerciali maggiormente rilevanti, specie da parte dei Paesi emergenti.

Il rischio più immediato è quello di andare incontro a una minore competitività delle imprese europee.

La fiducia riposta da parte delle istituzioni UE nello strumento del CBAM e nelle altre misure ambientali, come la plastic tax, deriva da un’impostazione che sembra valutare con attenzione il fenomeno del c.d. “re-shoring”, ossia il processo che interessa alcune aziende UE che hanno riportato, o riporteranno, le proprie attività produttive in patria, dopo averle precedentemente delocalizzate in altri Paesi. Secondo i sostenitori di tale cambiamento industriale, il re-shoring può offrire vantaggi competitivi attraverso una migliore gestione della supply chain, una generale riduzione dei tempi di consegna, maggiore flessibilità produttiva e una migliore qualità del prodotto finito.

Tali processi tuttavia, devono anche tener conto di alcuni dati inoppugnabili. Molte materie prime necessarie per le produzioni nazionali europee, alcune delle quali saranno assoggettate al CBAM, infatti, possono essere importate solo da Paesi extra-UE.

Una soluzione per bilanciare la necessità imperante di garantire una maggiore sostenibilità ambientale con quella, altrettanto importante, di garantire la competitività delle imprese unionali, potrebbe essere quella di incentivare i Paesi emergenti, fornitori di materie prime, nell’investire in tecnologie maggiormente sostenibili.